Gli orrori della mafia e il coraggio di pochi

Articolo di Giovanni Marino per La Repubblica Napoli

C’è stato un luogo dove si è combattuta una guerra. Colpevolmente ignorata e dolosamente sottovalutata dai palazzi romani, da un governo cinico e assente nel migliore dei casi, pavido e colluso nel peggiore. Da una parte loro, gli assassini di Cosa nostra, guidati, all’epoca, in una staffetta grondante terrore e sangue, da Totò Riina e Bernardo Provenzano. Dall’altra gli uomini giusti e coraggiosi, giusti e coraggiosi come pochi, oggi un elenco di croci, purtroppo. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Boris Giuliano, Pio La Torre, Rocco Chinnici, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella e la lista non finisce qui. Il teatro della battaglia era Palermo. Città magnifica strangolata dalla mafia e, all’epoca, rintanata in se stessa, angosciata e omertosa, incapace, nel suo tessuto sociale, di qualsiasi significativa reazione. Tranne in quegli uomini. Costretti a divenare eroi. E martiri.

Racconta questa guerra – e il prosieguo di una lotta non ancora conclusa – l’intenso libro del presidente del Senato Pietro Grasso, a lungo pm antimafia, giudice a latere del primo storico maxiprocesso che inchiodò per la prima volta Cosa nostra alle sue atroci responsabilità, procuratore di Palermo e capo della Direzione nazionale antimafia. E basta leggere le 233 pagine di “Storie di sangue, amici e fantasmi”, edito da Feltrinelli, che si presenta giovedì a Napoli nello store di piazza dei Martiri alle 18 con Paola Saluzzi e le letture di Marco D’Amore, per capire come ogni anche minima discussione su una possibile scarcerazione di Riina per ragioni di salute sia pretestuosa e, assieme, semplicemente inaccettabile. Totò – Salvatore – Riina compare costantemente nel racconto di Grasso, e non potrebbe essere altrimenti. Così come Provenzano, a cui l’allora magistrato diede una lunga e pervicace caccia. Padrini nati e cresciuti con un unico obiettivo uccidere per prendersi la Sicilia e poi, in un folle e crudele piano, il paese. Grasso si rammarica di non esser riuscito a far luce su alcuni delitti eccellenti. Come quello di Piersanti Mattarella (suo fratello, oggi presidente della Repubblica, è autore della prefazione al volume). E rimpiange il fatto che Provenzano sia scomparso con tutti i suoi mille pesantissimi segreti che avrebbero potuto aprire squarci di verità su inconfessabili connection.

Interessantissimo il racconto del maxiprocesso vissuto in prima persona da Grasso, con una serie di aneddoti e impressioni che soltanto lui poteva fornirci. Emozionanti e cariche di suggestioni le due lettere che, idealmente, Grasso scrive ai suoi amici e compagni di lavoro: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E’ un bel libro, quello di Pietro Grasso, perchè fa rivivere “in diretta” una stagione che nessuno deve dimenticare. Perchè trasuda impegno civile. Perchè ricorda quei giusti che non ci sono più. E ne tramanda ai più giovani le gesta, il valore, l’innegabile talento. Con la speranza che, presto, l’aggettivo “pochi” venga sostituito da “molti”.

E il senso di un racconto struggente e reale sta forse tutto, o quasi, nella citazione (tratta da Harper Lee, Il buio oltre la siepe) che apre il libro: “(…)aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. E’ raro vincere in questi casi, ma qualche volta succede”.